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“Zabarre, fichi d’India e Sambuco”


“Incredibile è l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia.” (Leonardo Sciascia)


La sua nascita, come il suo nome, sono avvolti dalla leggenda: c’è chi lo riconduce allo Σαμβύκη (sambýkē), uno strumento greco simile all’arpa, che ricorda l’impianto nel centro storico del paese, raffigurato nello stemma del comune; chi riconduce questo nome alle tante piante di sambuco che crescevano rigogliose nei pressi del lago Arancio, nei pressi del quale, sull’altopiano Adranon i Sicani nel IV secolo a.c. edificarono una

città di cui ancora oggi si trovano i resti archeologici; la teoria più diffusa però risale all’antico casale La Chabuca, che fu edificato in onore dell’emiro Al Zabut che conquistò questa meravigliosa porzione di Trinacria.

Sto parlando di Sambuca di Sicilia, quel pezzo di Sicilia che ha dato i natali a mio padre e da dove il mio cognome è partito alla volta del continente, in cerca di un lavoro. Erano i migranti della fine degli anni Cinquanta ed erano visti con diffidenza e rancore, dalle popolazioni che si trovavano “ob torto collo”, ad ospitarli. Li chiamavano “terroni” e “immigrati”, in tono dispregiativo e spesso venivano relegati nei bassifondi delle città dove venivano utilizzati per tutti quei lavori di fatica, che gli indigeni non volevano più praticare. È proprio vero, la storia non ci ha insegnato nulla e nemmeno l’esperienza di quei “terroni”, che alla fine hanno contribuito con i loro viaggi della speranza, a fare crescere le economie locali e a portare ricchezza sui territori dove sono andati a stabilirsi, ci insegna oggi a porci verso l’immigrazione con amore invece che con diffidenza o peggio che mai con mentalità speculativa.

Ma come dice Sciascia, se vuoi conoscere l’Italia devi conoscere la Sicilia, con l’Etna, la scala dei Turchi, San Vito Lo Capo, la valle degli Aranci e tanti altre meravigliose pitture di Dio, che in questa terra ha saputo miscelare lacrime e oro, unendo la forza della natura alla bellezza delle opere dell’uomo, che trovano l’esaltazione nella città di Palermo, nella bellezza di Selinunte e nella grandezza della Valle dei Templi ed in altre centinaia di costruzioni che ancora oggi possiamo ammirare, mentre viaggiamo in mezzo a zabarre e fichi d’india.

Ma c’è una ricchezza che va anche oltre questi doni che ci mostra la Sicilia e sono i siciliani, che avranno anche mille difetti ma hanno il cuore grande come tutta la loro isola. Non puoi pensare di andare in Sicilia e fare vita sociale ritirata. Non rientra nel loro DNA: il siciliano ti ospita e ti tratta come un Re, mettendo a disposizione di chiunque arrivi sul loro territorio da amico, non solo la loro materialità, ma soprattutto la propria ricchezza interiore. Ho tanti parenti in Sicilia e quando mi è capitato di scendere sull’isola, ho constatato la loro voglia di condivisione ed inclusione, che ti porta a sentirti da subito parte di quella terra. È qualcosa di grande che ti scalda il cuore e ti rende veramente

l’idea di quale potrebbe essere una nuova società, basata su un nuovo umanesimo, che sia davvero qualcosa da condividere con tutto il mondo.


Purtroppo quando si parla di quest’isola meravigliosa, spesso si usano parole che raccontano cose malvagie, brutte e drammatiche, ma chiunque si è trovato invece a visitare questa terra, sa bene invece cosa voglia dire, al momento della ripartenza, sentire il “mal d’isola”.


L’esperienza nel progetto del mondo migliore mi ha portato a conoscere tante persone che vivono e combattono ogni giorno per la loro, anzi per la nostra isola e i salotti solidali della Sicilia in questi anni hanno dimostrato la loro forza di condivisione creando strutture bellissime che hanno realizzato di iniziativa tanti piccoli progetti. Purtroppo anche la Trinacria ha subito l’influsso di quella stanchezza, che ha colpito tante persone di buona volontà, che hanno fatto grande il progetto ideato da Maurizio

Sarlo e per un attimo ho temuto che l’esperienza siciliana legata a Coemm, potesse franare sotto l’onda di un terremoto, che avrebbe potuto cancellare quanto di bello era stato creato in terra siciliana. Un po’ come era successo la notte tra il 14 ed il 15 gennaio 1968, al paese di mio padre, in quella Sambuca che come buona parte dei paesi e comuni della Valle del Belice, furono gravemente danneggiati da un terremoto, che avrebbe potuto annientare qualsiasi volontà di futura ricostruzione. Invece i sambuchini hanno prima ricostruito la loro città sulle colline circostanti e

poi, quando lo Stato si è ricordato di loro e le rocce di Sicilia sono tornate a dormire, hanno anche ricostruito il paese, con tanta volontà e amore, al punto che oggi è inserito tra i borghi più belli d’Italia.


Così anche dopo il terremoto che ha scosso l’organigramma dei Clemm della regione siciliana, sconquassato da alcune importanti defezioni, si è temuto per un attimo che l’esperienza siciliana potesse rimanere sepolta sotto le macerie della fragilità umana, ma come sempre, invece la Sicilia ha rialzato la testa e grazie a Silvio Marcovina quale nuovo Referente Regionale ed alla sua volontà di

portare avanti questa esperienza, subentrando a chi con sofferenza ha lasciato l’incarico, oggi abbiamo questa meravigliosa terra ancora più forte e convinta di realizzare qualcosa, che possa davvero contribuire a cambiare il paradigma che regola questa nostra società sbagliata.


Vorrei dire grazie alla mia terra di origine e agli uomini che la vivono, per l’apporto che continuamente regalano al progetto che amiamo, ma soprattutto per il continuo insegnamento che scopriamo dopo ogni terremoto, che possiamo

rappresentare bene con il verbo “Ricostruire”.


“Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all'interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d'addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca.” (Vincenzo Consolo)

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