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Il confine della fortuna

“Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato... Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era per me come la Terra Promessa”.

In questi anni, più volte abbiamo avuto la dimostrazione di quanto il potere, nel momento in cui il suo status quo viene messo in discussione oppure rischia di perdere di efficacia, effettua durissimi colpi di coda, colpendo a destra e a manca, a volte solo per mera strategia politica, al fine di spostare l’attenzione del popolino su problematiche minori, che possono essere controllate più facilmente da chi decide cosa, come e quando. Tra le tematiche usate più spesso, sicuramente l’immigrazione è da mesi quella principale, di una lotta politica, dentro un’azione mediatica che ha instaurato una guerra tra poveri, “tra chi arriva in Italia perché sta scappando da una non-vita e chi invece vorrebbe scappare dall’Italia perché non c’è la fa più a vivere qua”.

La differenza tra queste due entità è solo legata al fato, che ha stabilito dove fare nascere queste persone, dividendole in fortunati e sfortunati, con linee di demarcazione create fondamentalmente da chi appartiene alla categoria dei fortunati, che hanno stabilito dove porre quelle stesse linee di confine. In questo bailamme di informazioni, mirate a creare “la caccia all’uomo nero”, spesso sono strumentalizzate situazioni oggettive, con un disegno politico che, come al solito, non cerca di stabilire una verità, ma è indirizzato a influenzare la percezione delle persone comuni. Questa ipotesi è ampiamente confermata da alcuni sondaggi fatti nelle scorse settimane, nei quali è stato chiesto agli italiani quale sia il

problema principale della nostra bella Italia, con il risultato che la maggior parte degli intervistati, ha risposto mettendo al primo posto “la sicurezza e l’immigrazione clandestina”, mentre alla domanda di quale sia il problema principale del luogo dove quelle persone risiedono, il problema della sicurezza e dell’immigrazione clandestina, è scivolato ben oltre la quinta posizione.

Questo perché noi viviamo di percezione e troppo spesso ci lasciamo intortare dall’informazione che ci viene fornita come oro colato e che non sappiamo o che non vogliamo approfondire, continuando a rimanere bloccati nel limbo mediatico, di chi ha il


potere di darci la “comunicazione ufficiale”. In tema di immigrazione, in questi ultimi anni, tutti hanno commentato questa problematica, adattandola al proprio tornaconto, ma nessuno,

tranne il geniale Checco Zalone anche se in modo ironico nel suo ultimo film “Tolo Tolo”, ci ha mai fornito una visione d’insieme di questa problematica, che tenesse conto anche della parte soggettiva, di chi quell’immigrazione la vive in prima persona. Immigrare è fondamentalmente scappare da qualcosa e chi immigra, oltre a lasciare tutto quello che sono le sue radici nel luogo da cui scappa, realizza alla fine purtroppo la sua entità di vittima di politiche scellerate umane, che in partenza lo hanno costretto a fare quella scelta anti-etica: “scappare dalla propria casa, dalla propria terra”.

La maggior parte di quelli che scappano poi, non lo fanno per venire “a fare la pacchia” da noi, come qualcuno ha avuto la disgraziata idea di affermare, ma più semplicemente perché nei propri territori, a causa di guerre fratricide, carestie, mancanza di acqua o di cibo, carenza di medicinali e soprattutto assenza di possibilità di lavoro, non hanno la possibilità di sopravvivere.

Il sistema attuale, invece di porre in atto delle misure reali di sostegno e di cooperazione internazionale, atte a superare le forme dittatoriali presenti in quei territori, spesso oggetto di profonde corruzioni che di fatto alimentano la povertà e la fuga delle persone, attraverso la creazione di progetti reali di redistribuzione della ricchezza mondiale, trova più facilmente il modo di trasformare quelle vittime di un sistema sbagliato, in oggetto di un problema globale che va bloccato, fermato, condannato e spesso annientato. È facile per il potere occidentale creare il pericolo “Uomo nero”, giocando sul fatto che abbiamo la memoria troppo corta e che ci fa dimenticare che storicamente quell’uomo nero, poi tanto nero non è stato e che, soprattutto, spesso parlava anche italiano.

Nicola è a bordo della motonave “Romanic” mentre Bartolomeo è su “La Provence” ed entrambi stanno viaggiando verso gli Stati Uniti d'America, dove sperano di trovare la loro Terra Promessa. Nicola rimane molto colpito al suo arrivo in America e descrive questa sua sensazione, con le parole con cui ho aperto questo articoletto. Trova lavoro in una fabbrica di calzature a Milford dove poi sposerà Rosina, che gli darà due figli, Dante e Ines, mentre lui lavora sei giorni la settimana, per dieci ore al giorno, impegnandosi anche sindacalmente, promuovendo scioperi di operai, per chiedere salari più alti e migliori condizioni di lavoro. I suoi interventi nei comizi colpiscono l’animo dei partecipanti, che spesso sono anche poliziotti e che alla fine, per quelle sue parole, lo arresteranno.

Bartolomeo invece svolge diversi lavori in trattorie, in una cava, in un'acciaieria e in una fabbrica di cordami e passa il tempo libero a leggere opere di Marx, Darwin, Hugo, Gorkij, Tolstoj, Zola e Dante. Anche lui ha guidato uno sciopero e per questo motivo, poi nessuno ha voluto dargli un altro lavoro. Alla fine, per sopravvivere, aprirà una propria attività, inventandosi pescivendolo.

Una sera, in una trattoria italiana, Nicola e Bartolomeo si incontrano per la prima volta e tra loro nasce da subito una grande e profonda amicizia, anche per le loro idee anarchiche, che li porteranno a fuggire in Messico, per evitare la chiamata alle armi in occasione della Grande Guerra. Quando tornano in America, al termine del conflitto, non sanno di essere stati inseriti in un elenco di sovversivi pericolosi, venendo continuamente pedinati dai servizi di sicurezza americani. Con loro vi è anche un loro amico Andrea Salsedo, che verrà trovato sfracellato al suolo alla base del grattacielo di New York, dove al quattordicesimo piano aveva la sede il Bureau of Investigation, dove Salsedo era stato tenuto illegalmente prigioniero per settimane, insieme ad altri italiani.

Nicola e Bartolomeo organizzano una manifestazione per protestare contro la morte di Salsedo, ma vengono arrestati prima della sua realizzazione, perché trovati in possesso di pistole e di appunti ritenuti sovversivi. Dopo alcuni giorni dall’arresto, vengono incriminati anche per una rapina avvenuta in un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto, nella quale sono stati uccisi a colpi di pistola, il cassiere di un calzaturificio e una guardia giurata.

Il verdetto del processo, nonostante non vi siano chiare prove accusatorie nei confronti di Nicola e Bartolomeo, è macchiato da una forte volontà di perseguire una politica del terrore anti-comunista, indicata dal Ministro della Giustizia Palmer, che avrebbe dovuto essere poi propedeutica alle successive politiche americane anti-immigratorie, culminate con l’avvento delle procedure di espulsione.


I due italiani, nonostante non venne dimostrato che avevano commesso il crimine per il quale

erano accusati, furono sacrificati sull’altare delle nuove politiche immigratorie del governo americano, come segnale per chi si opponeva a tali misure, approfittando del fatto che erano immigrati italiani, tra l’altro con una padronanza sommaria della lingua inglese e che si erano comunque evidenziati in passato, per le loro idee politiche radicali. Lo stesso Webster Thayer, il giudice che li condannerà, li definì, durante la lettura della sentenza, come “due bastardi anarchici”.

La mattina del 23 agosto 1927, nel carcere di Charlestown, Nicola e Bartolomeo furono “giustiziati” sulla sedia elettrica, dopo che il Governatore del Massachusetts Alvan T. Fuller, si rifiutò di annullare la sentenza, nonostante la tesi accusatoria, fosse gravemente lacunosa e piena di abusi di potere.


Cinquanta anni dopo, il 23 agosto 1977, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis, ha

emanato un proclama, con cui ha assolto i due italiani dal crimine per cui sono stati uccisi, dalle mani lorde di sangue degli uomini di quella nazione, che loro avevano sognato poter diventare un giorno la loro Terra Promessa, con queste parole: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti».

Il sacrificio di questi due immigrati italiani, che hanno pagato con la loro vita le politiche anti-immigratorie americane, rimangono indelebili nelle parole di Nicola Vanzetti, proferite al termine del processo e devono aiutarci a fare in modo, che mai più, nemmeno in Italia, un immigrato, che è venuto sperando di trovare la Terra Promessa, un giorno debba essere riabilitato, per gli errori politici di chi ritiene che la fortuna, debba essere delimitata da una linea di confine e che gli uomini possono essere trattati come animali, solo attraverso politiche immigratorie:

«Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra, non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano. Se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già.»

(Nicola Sacco)

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